Per diverse settimane il “carèt da zarpìr” rimaneva sempre a vegliare la vigna e, da bravo custode, alla fine di ogni giorno si ritrovava di vedetta in un punto diverso della bellussèra.
Al mattino faceva la sua apparizione tra la nebbia, sempre alto e fiero, a sfidare le fredde nottate all’aperto con la consapevolezza che, di lì a poco, sarebbe arrivato il suo collega di lavoro.
Infatti poco dopo il sorger del sole, puntuale arrivava lui. Saliva dalla scaletta sul retro, come a seguire un rituale; posizionava le fassìne nei treppiedi, qualora non ne fossero avanzate dal giorno prima; accendeva la radio a fargli compagnia e iniziava a zarpìr le viti.
Durante tutta la giornata il “carèt da zarpìr” si riempiva dei tralci di vite scartati nella potatura, ma ogni sera, prima di lasciare il carèt, lui lo ripuliva e spazzava a terra tutto il legno. In questi gesti di cura si percepiva tutta la gratitudine che lui usava verso quest’attrezzo, che per altri era solo un carro, ma per lui (cresciuto in tempi in cui per potare le viti si doveva portarsi appresso una pesante “scaea musàt”) era un importante aiuto.
Era tutto in ordine, prima di eseguire il consueto commiato che consisteva nello spegnere la radio, coprire il motore con un sacco di plastica legato da uno spago, scendere e allontanarsi spalle al campo, mentre nel cielo si faceva l’imbrunire.
Quella notte c’era chiaro di luna e il carèt da zarpìr in mezzo al vigneto era illuminato come un divo del cinema che, invece di sfilare sul proverbiale tappeto rosso, era il protagonista sul suo tappeto verde.
Ma cos’è e a cosa serve il “carèt da zarpìr”?
È un attrezzo che usavamo per la potatura invernale su vigneti impianto Bellussi.
Il carretto aveva un’altezza tale da permettere a chi lo sormonta di raggiungere agevolmente con le mani i tralci di vite più alti e, per salirci, era dotato di una scala a pioli in ferro installata sul retro.
Sopra questa spoglia piattaforma si trovavano il volante e due treppiedi mobili in ferro, sui quali venivano adagiati i giunchi di salice per la legatura dei tralci.
Durante l’utilizzo, il carretto si ricopriva dei tralci di vite che venivano scartati nella potatura.
Prima di questo carretto, per potare le viti, se ne usava uno identico senza motore, ma trainato dal trattore. Oppure altre versioni erano dotate di una manovella posta sopra la piattaforma, da girare manualmente, che era collegata meccanicamente alle ruote e manovrabile con un timone (quindi a trazione manuale).
Altrimenti il primordiale attrezzo di cui si avvalevano nella potatura, per il raggiungimento dell’altezza dell’impianto Bellussi, era la “scaea musàt”: una scaletta a pioli in legno a forma triangolare, con in totale tre punti di appoggio, di cui uno era un bastone mobile. Questa richiedeva di essere spostata a mano, pianta per pianta, caricandosela in spalla.