Erano i primi di settembre quando già si faceva spazio sotto il barco per portare fuori il carro.
Nel lungo periodo di inutilizzo era stato sommerso da vari altri attrezzi, davanti a lui ancora il tarùc fresco di utilizzo.
Una volta liberato lo spazio, il carro veniva portato al di fuori del capanno, veniva spazzato, lavato e collegato al trattore per provare se l’impianto elettrico delle luci era a posto: lui faceva lampeggiare prima una freccia, poi l’altra e poi tutte e due a controllare che fosse funzionante.
Successivamente lui saliva nel carro e iniziava ad addobbarlo con un enorme telo verde scuro, che con meticoloso rigore ripiegava sugli angoli, e che fissava alle sponde con delle corde elastiche.
Dai lati del carro si estendevano delle strutture che sarebbero servite ad ospitare i vendemmiatori.
Sui vitigni più precoci era già pronta l’uva ed ogni giorno di quella settimana sarebbe stato idoneo per iniziare la vendemmia.
La stragrande maggioranza delle coltivazioni del paese consisteva in campi di viti e tutti tenevano sotto controllo la strada: era usanza che il primo “caro da vendemar o da uva” che sarebbe passato avrebbe decretato l’inizio della vendemmia per tutti.
Ma cos’è il “caro da vendemar”?
Il “caro da vendemar” altro non è che un rimorchio agricolo con tutte e 4 le sponde di ferro di altezza contenuta (poco più di mezzo metro) apribili, tenute chiuse insieme da degli uncini che si infilavano in crune (in dialetto “canevaz”).
Esistono modelli più piccoli (con un solo asse) o più grandi (con due) e davanti c’è il timone che lo collega al trattore.
Nell’occasione della vendemmia prendeva l’appellativo di “caret da vendemar” mentre quando era pieno di uva, veniva detto in dialetto “caro de uva”, altrimenti era un semplice carro per il trasporto di materiali per il campo.